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Che cos’è l’overfishing?

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Negli ultimi 55 anni è emersa la consapevolezza che gli oceani sono vulnerabili, le sue risorse esauribili. L’overfishing porta all’impoverimento dei mari in termini di biodiversità e di servizi. Ma in che modo possiamo contribuire noi consumatori? La risposta è non mangiando pesce.

Leggi anche: Allevamenti intensivi ittici: tra ecologia ed etica (lecopost.it)

“Seaspiracy” e l’insostenibilità della pesca (lecopost.it)

Che cos’è l’overfishing?

A livello mondiale l’overfishing o sovrapesca costituisce una delle più gravi minacce alla salute dei mari e dei loro abitanti. Se pescare in sé non è intrinsecamente dannoso per l’oceano, ciò che minaccia gli ecosistemi marini è il sovrasfruttamento delle risorse ittiche. Il termine overfishing indica un prelievo talmente eccessivo e veloce di specie di pesce dal mare da non permettere a queste di riprodursi.

Come spiega Greenpeace, il 63% dei pesci mondiali dei quali ci nutriamo viene pescato in quantità decisamente oltre quelle sostenibili dalla natura.sia in termini di possibilità riproduttive (gli animali sono troppo pochi e non fanno in tempo ad accoppiarsi) che in termini di biodiversità (l’assenza di anche solo una specie, provoca conseguenti mutazioni alla catena alimentare e modifica l’ambiente circostante).

La pesca eccessiva è strettamente legata al bycatch – la cattura accidentale di specie non desiderate. Parliamo di uno dei più gravi problemi legati alla pesca in tutto il mondo. Esso infatti causa l’inutile perdita di miliardi di pesci, insieme a centinaia di migliaia di tartarughe marine e cetacei.

Un po’ di storia dell’overfishing

È possibile rintracciare Il primo esempio di overfishing già all’inizio dell’800. La ricerca di grasso per l’olio per le lampade condusse ad una decimazione della popolazione delle balene. Inoltre, l’idea dell’inesauribilità delle risorse ittiche, sostenuta da diversi naturalisti dell’Ottocento, tra cui Huxley ha favorito questa pratica.

Tuttavia, fenomeni di overfishing rimanevano isolati e circoscritti: dalla fine del 20esimo secolo sono divenuti globali e catastrofici.

Da metà del secolo scorso infatti, gli stati hanno cominciato ad adottare diverse politiche per favorire un incremento dei rendimenti di pesca. Inizia l’era della pesca industriale, caratterizzata dallo sviluppo di tecnologie e strumenti sempre più aggressivi per la cattura dei pesci. Queste pratiche determinano la crescita esponenziale di prodotti ittici disponibili a prezzi accessibili, sempre più richiesti dai consumatori.

Questo circolo vizioso tra aumento della domanda e di conseguenza dell’offerta, vede presto i suoi frutti nel depauperamento delle risorse ittiche. Infatti, oltre a minacciare gli ecosistemi marini, l’overfishing minaccia la pesca stessa: dal 1950 al 2015, la quantità di pescherecci nel mondo è più che raddoppiata, a fronte di un calo di pescato a parità di lavoro dell’80%. Le riserve ittiche sono sempre più magre: il 29 per cento delle specie marine, usate per il commercio, hanno subito un collasso, in certi casi anche del 90 per cento. Ci troviamo in uno status in cui si pesca di più ma si cattura di meno.

Stime attuali di overfishing

Ad oggi, ogni persona mangia una media di 19,2 kg di pesce l’anno (circa il doppio rispetto a 50 anni fa) e la FAO predice che tale consumo arriverà a 21,5 kg nel 2030. Per soddisfare questa domanda, più del 55% degli oceani è nelle mani dell’industria della pesca.  

  • Oltre il 30% degli stock ittici è sovrasfruttato;
  • Il 60% è sfruttato al limite;
  • Solo il 7% è entro i limiti di sostenibilità.

Parlando delle specie di pesce che consumiamo più frequentemente, Greenpeace fa sapere che abbiamo perso il 99% delle anguille europee e il 95% del tonno australe, che i salmoni sono quasi del tutto scomparsi dall’Atlantico, sempre più squali e razze entrano nelle liste di animali a rischio estinzione, così come l’80 dei maggior predatori dei mari sono scomparsi dalle coste nord del Pacifico e dell’Atlantico

Pesci estinti entro il 2048

Di fronte al crollo delle grandi popolazioni di pesce, le flotte commerciali “avendo esaurito i grandi pesci predatori in cima alla catena alimentare, si concentrano sulle specie sempre più piccole, finendo infine a pescare i piccoli pesci e gli invertebrati precedentemente scartati”.


Questo cosiddetto “fishing down” sta innescando una reazione a catena che sta sconvolgendo l’antico e delicato equilibrio del sistema biologico del mare.

Uno studio sui dati di cattura pubblicato nel 2006 sulla rivista Science ha previsto che se i tassi di pesca continueranno a ritmo sostenuto, tutte le attività di pesca del mondo saranno crollate entro l’anno 2048.

Quali sono le possibile soluzioni?

Per arrestare il declino, secondo gli autori della ricerca, è necessario creare delle aree protette, dove sia salvaguardata la biodiversità e dove specie sull’orlo dell’estinzione, possano ricominciare a svilupparsi. Un processo abbastanza veloce: secondo i calcoli degli scienziati, con un buon ecosistema in tre, cinque, al massimo dieci anni, si potrebbero ripopolare di pesce molte zone. Inoltre, una migliore applicazione delle leggi che regolano le catture e un maggiore uso dell’acquacoltura possono contribuire alla risoluzione del problema.

Tuttavia, l’illegalità e la pesca insostenibile affliggono prepotentemente l’industria. Inoltre, sono i consumatori abituati a quantità di pesce sovrabbondanti e spesso inconsapevoli della provenienza del pescato che continuano a dare benzina a queste pratiche devastanti. Dunque, la soluzione più immediata ed efficace da parte nostra è non consumare pesce.


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di Miriam Santoro
Feb 17, 2021
Nata nel 1998 in provincia di Frosinone, consegue la laurea in ”Comparative, European and International Legal Studies” presso l’Università di Trento a pieni voti. Attualmente frequenta il corso di laurea magistrale ”Law and Sustainable Development” con una specializzazione in diritto dell’ambiente presso l’Università Statale di Milano. Da sempre appassionata di scrittura, si avvicina al mondo del giornalismo grazie ad un tirocinio presso ”OBC Transeuropa” (un think tank che si occupa di sud-est Europa). Viene quindi selezionata per una campagna di sensibilizzazione promossa dall’UNDP, ”Young Environmental Journalist campaign -2020″ e frequenta il corso di giornalismo ambientale di inchiesta promosso dal ”Centro Documentazione Conflitti Ambientali” e dall’associazione ”A Sud”. Durante gli studi si appassiona alla tematica ambientale e diviene consapevole che la protezione dell’ambiente è l’ambito che più di tutti richiede il suo urgente, seppur piccolo, contributo. Crede nel diritto e nella corretta informazione, i suoi strumenti per poter fare la sua parte nella salvaguardia del pianeta e nello sviluppo di una società più sostenibile.

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